Per me, che avevo sette anni, poteva essere un giorno qualunque di fine anno scolastico. Il cielo di Cagliari era sereno e già si sentivano i primi caldi. In cuor mio pregustavo una dolce estate di gioia e divertimento. Da qualche giorno, il vecchio televisore di famiglia, in bianco e nero e con radio incorporata aveva esalato l' ultimo respiro. Così mio padre, per non restare fuori dal mondo e concedere il meritato svago alla famiglia, decise di provvedere alla sostituzione dell' apparecchio proprio in quella mattinata di giugno. Io lo accompagnai e assieme, dopo aver attraversato la soleggiata piazza Galilei con la sua bella fontana circondata da salici piangenti e, di seguito, quel lato ombroso della piazza Garibaldi dinnanzi alla scuola elementare Alberto Riva, giungemmo al negozio di elettrodomestici che allora si trovava all' angolo tra la via Alghero e la via Garibaldi. Nelle ampie vetrine era esposta ogni sorta di apparecchi elettrici. Lavatrici, lavastoviglie, radio. Ma soprattutto televisori. Tutti accesi. Tutti con le stesse drammatiche immagini che arrivavano in diretta dagli Stati Uniti. Servizi giornalistici e sequenze televisive che testimoniavano l' uccisione del senatore Robert Kennedy, candidato democratico alla Casa Bianca. La gente si assiepava dinanzi alla vetrina e poi correva a casa per informarsi sugli sviluppi del tragico evento. Credo di esser stato turbato fortemente da quelle immagini perché, per certo, fu il mio primo vero impatto con la durezza e la malvagità di certa politica. Nella mia mente di bambino vedevo soprattutto la violenza del gesto e, inevitabilmente, il mio pensiero andava al dolore dei figli e della vedova dell' ucciso. Poco sapevo delle ragioni di quell' assassinio. Della perversa volontà di evitare che un progressista potesse diventare il Presidente degli Stati Uniti d' America. Specie in un momento storico segnato non solo dalla guerra del Vietnam ma anche da una dura contrapposizione tra USA e URSS che allora, proprio per la mia tenera età, stentavo a comprendere. Ovviamente nulla sapevo neanche del famoso "discorso sul PIL" pronunciato dal senatore Kennedy il 18 marzo 1968 presso l' Università del Kansas (vedi testo a fine post). Comunque sia, pur nell' ingenuità che caratterizza l' infanzia, non dimenticai mai quel giorno anche perché seppi che, non molto tempo prima, le cronache erano state funestate dall' uccisione del reverendo Martin Luther King, attivista per i diritti civili.
Con il passar degli anni e con la maturità, ho elaborato questi eventi che tanto avevano colpito la mia attenzione di bambino e ho compreso quanto l' odio viscerale possa condizionare negativamente la politica. Quanto il cercare il consenso degli ultras esagitati e l' ignorare coloro che richiedono un'azione politica scevra di proclami e carica di contenuti possa essere dannoso per la società umana. Una società che oggi appare in uno stato di incoscienza e indifferenza e, perciò, pencola sull'orlo di un precipizio che, ogni giorno che passa, fa sempre più paura.
Il Discorso sul PIL di Robert Francis Kennedy
"Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra
personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico,
nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito
nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base
del prodotto nazionale lordo (PIL). Il PIL comprende anche l’inquinamento
dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le
nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto
le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che
cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza
per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di
napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare
la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti
che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle
loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto
della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della
gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia
o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o
l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei
nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il Pil non misura né
la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra
conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura
tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere
vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di
essere Americani."
Il disegno inserito nel corpo del post è stato realizzato dalla mia secondogenita ai tempi delle scuole elementari... ora è una ragazza di venticinque anni.
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